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PRATICHE DI PARTECIPAZIONE ATTIVA

PRATICHE DI PARTECIPAZIONE ATTIVA

Percorrendo la storia dell’arte del 900 si assiste ad una significativa evoluzione nella pratica di coinvolgere gli spettatori in maniera attiva nel fare artistico, permettendo alla realtà di entrare all’interno dell’opera sino a rendere indistinguibile l’una o l’altra. 

Questa evoluzione/rivoluzione affonda le le proprie radici  nelle avanguardie primo-novecentesche iniziando a definirsi con le idee e le sperimentazioni di alcuni artisti dell’epoca, come ad esempio il collage (Schwitters) e il ready-made (Duchamp).

Le avanguardie ricoprono un ruolo fondamentale dunque nell’evoluzione del fare artistico e nella percezione dell’opera d’arte da parte degli spettatori, di fatto: “l’opera d’arte non è più qualcosa in sé conchiuso e unico firmato dall’artista ma diventa altro: pratica, comunicazione, processo collettivo, di tutti, che, per aver luogo, abbisogna di attivare la partecipazione del pubblico”1.

Compiendo un salto temporale, un altro momento particolarmente importante del di quello che potremmo definire un processo di democratizzazione dell’arte è individuabile nell’attività di due movimenti particolarmente attivi a partire dagli anni Sessanta: Fluxus e l’Internazionale Situazionista, i quali immaginano una nuova modalità di fare arte coinvolgendo gli spettatori in una esperienza artistica, come accade per esempio nelle “situazioni” (Debord) e negli happening (Kaprow). 

Successivamente, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Novanta si assiste ad un processo di consolidamento della presenza dell’arte negli spazi pubblici e in particolare di un’apertura verso il coinvolgimento degli spettatori, passando di fatto da un modello site-specific ad un modello audience-specific. In questi anni si definiscono i caratteri di quella che verrà definita “new genre public art” (Suzanne Lacy). 

All’interno di questa definizione trova spazio una nuova idea di fare arte che pone l’accento sul processo piuttosto che sull’oggetto: l’arte acquista una nuova funzione divenendo motore nel processo di democratizzazione dello spazio attraverso azioni che coinvolgono in maniera diretta e partecipata i cittadini. All’interno di questo processo comunicativo e sociale, l’artista assume un nuovo ruolo di “facilitatore sociale” e attivatore di comunità .

Negli stessi anni anche in Europa si definiscono processi e teorie che spostano l’interesse degli artisti verso l’attivazione di pratiche partecipative: negli anni Novanta vengono coniati nuovi termini quali “arte contestuale” (Weibel) ed “estetica relazionale” (Bourriaud), sino ad arrivare all’arte dialogica (Kester) dei primi anni Duemila, che definisce la pratica artistica della facilitazione attraverso il dialogo tra gruppi di partecipanti, e che spesso tratta temi socio-politici.

A partire dagli anni Novanta l’arte diviene Spatial Practice, concretizzandosi in pratiche partecipative basate su una dinamica relazionale di confronto e scambio tra l’artista e i partecipanti, in cui l’opera è il processo e il processo è l’opera. 

L’arte si fa dunque motore della partecipazione all’interno delle comunità, facilitando il coinvolgimento delle persone nei processi artistici e culturali, spesso con risvolti sociali e politici: lo spettatore/cittadino assume il ruolo di prosumer o di creative user (Bishop,
Carnelli) divenendo quindi non più solo un consumatore di contenuti, ma un attore attivo che aggiunge valore e collabora alla creazione con i suoi interessi, desideri e le cui
storie diventano esse stesse parte della produzione2.


1 C. Guida, SPATIAL PRACTICES, 2012, pag. 64. 

2 G. Ciancio, [Processi Partecipativi] Contraddizioni e opportunità delle pratiche creative a base partecipativa https://agcult.it/a/17977/2020-05-01/processi-partecipativi-contraddizioni-e-opportunita-delle-pratiche-creative-a-base-partecipativa